Per l’anno dei Folli (Preghiera)

Dic 5, 2020 | Prendersi cura in forma di poesia

O Maria, fragile madre,
ascoltami, ascoltami adesso
anche se non so le tue parole.
Ho in mano il nero rosario, con il suo Cristo d’argento,
non è prediletto da Dio
perché io sono l’infedele.
Ciascuno dei grani è tondo e duro tra le mie dita,
è un piccolo angelo nero.
O Maria, concedimi questa grazia,
concedimi di cambiare,
sebbene io sia brutta,
sommersa dal mio stesso passato,
dalla mia stessa follia.
Anche se ci sono delle sedie
io sono sdraiata sul pavimento.
Solo le mie mani sono salve
toccando i grani del rosario.
Una parola dopo l’altra, ci incespico dentro.
Una principiante, sento la tua bocca toccare la mia.

Conto i grani come se fossero onde
che mi martellano contro,
saperne il numero mi fa ammalare,
afflitta, afflitta nel cuore dell’estate
e la finestra sopra di me
è la sola che mi ascolta, il mio essere goffo.
Dà in abbondanza, è rilassante.
L’elargitrice del respiro
lei, mormora,
i suoi polmoni esalano come quelli di un enorme pesce.

Sempre più vicina
è l’ora della mia morte
mentre mi risistemo il volto, divento come prima,
come prima dello sviluppo, con i capelli diritti.
Tutto ciò è morte.
Nella mente vi è un esile vicolo chiamato morte
ed io mi muovo lungo di esso come
nuotando nell’acqua.
Il mio corpo è inutile.
È disteso, accucciato come un cane su un tappeto.
Si è arreso.
Qui non ci sono parole se non quelle apprese a metà,
l’Ave Maria e piena di grazia.
Ora sono entrata nell’anno senza parole.
Noto la strana entrata e l’esatto voltaggio.
Esistono senza parole.
Senza parole una può toccare il pane
e riceverlo
senza emettere alcun suono.

O Maria, tenero medico, vieni con polveri ed erbe
perché sono nel centro.
È veramente piccolo e l’aria è grigia
come in una casa a vapore.
Mi porgono del vino come a un bambino si porge del latte.
Appare in un bicchiere di delicata fattura,
con la boccia circolare e l’orlo sottile.
Il vino ha un colore denso, muffa e segreto.
Il bicchiere si solleva da solo tendendo verso la mia bocca
e me ne accorgo e lo capisco
soltanto perché è successo.

Io ho questa paura di tossire
ma non parlo,
la paura della pioggia, la paura del cavaliere
che arriva galoppando nella mia bocca.
Il bicchiere si inclina da solo
e io prendo fuoco.
Vedo due sottili righe che mi bruciano rapide giù per il mento.
Mi vedo come se mi vedesse un altro.
Sono stata tagliata in due.

O Maria, apri le tue palpebre,
io sono nel dominio del silenzio,
nel regno della pazzia e del sonno.
C’è sangue qui
ed io l’ho mangiato.
O madre del grembo,
sono venuta soltanto per il sangue?
O piccola madre
Sono dentro i miei pensieri.
Sono rinchiusa nella casa sbagliata.

La immaginiamo Anne  Sexton, la splendida e tormentata poetessa del Massachusetts, maestra di quella poesia confessional (con temi arditi quali aborto, mestruo, rapporti sessuali… estranei al puritanesimo americano) che si delineava negli anni Cinquanta e Sessanta, malata di sindrome bipolare da sempre, sconvolta da esaurimenti, un divorzio, tanti amanti e amicizie eccessive, due figlie e un rapporto mai risolto con entrambi i genitori, probabilmente vittima da bambina di abusi da parte del padre alcolizzato. Leggendo  questa sua celebre poesia del 1972, uscita poco prima del suicidio all’età di quarantaquattro anni, la immaginiamo distesa sul pavimento della sua grande villa, ormai sola e alcolizzata, carica di barbiturici e forse reduce da uno dei molti ricoveri in clinica psichiatrica, che essa stessa cercava come luogo di pace e silenzio per ricreare la sua vena poetica:  ora qui, accasciata quasi senza respiro, ad invocare la Vergine Maria, chiamata con tanti teneri epiteti. È credente Anne? Difficile dare questa risposta! Il suo, a detta dei critici, è un universo ateo, che rifugge dai clichè del protestantesimo puritano e si affaccia ai dogmi della chiesa cattolica di Roma, ma sicuramente ha un io alla ricerca di un sacro che le dia senso. Anne, definita da certa critica come “ragazza cristica” per la sua ricerca religiosa, sarà in eterna ricerca di una redenzione capace di assolvere il proprio passato irrisolto, di un Dio Padre buono che risani quello che ha avuto nella realtà, di una Madre presente che sappia difenderla ed esserci! Ed eccola qui sul pavimento con quello strano rosario nero nelle mani, più simbolo religioso o più feticcio non sapremmo dire, sicuramente aggrappata a quei grani come il naufrago alla corda del salvagente che lo riporta in salvo. Ed è Maria (così stranamente si chiamava anche la sua vera madre), invocata come “fragile madre”, “piena di grazia”, “tenero medico”, “madre del grembo” e “piccola madre” nella chiusa, colei a cui si rivolge questa insolita preghiera che suona più come la confessione di una bambina piccola e sconvolta, la quale in un pianto liberatorio sfoghi nel grembo materno un dolore represso. Tutto per Anne si può dire a quella madre in quel momento, e ogni immagine è lecita in quello spazio di confidenza dove il Padre (Dio Padre) e il Cristo (qui adombrato come Eucarestia mai nominata) sono per un po’ di tempo appoggiati su uno sfondo. E’ una sorta di nenia, di giaculatoria sempre varia che chiede a Maria di risanare un femminile deturpato che Anne stessa sente di non aver riparato, né come figlia né come madre. E in questo gioco di parole da rosario incespicato, in rantoli da pesce fuor d’acqua come nell’immagine evocata, col respiro di un polmone-finestra sopra la testa, si avverte l’avvicinarsi della morte come presenza che sa dare consapevolezza ad un corpo che prima tuttavia sembrava desensibilizzato. Il corpo è “inutile”, accucciato come  un cane davanti al caminetto, eppure vivificato ancora dalle parole fertili dell’Ave Maria, piena di grazia. Il tutto per traghettare alla cura di una madre che si fa medico, quasi ancestrale donna-medicina che cura con erbe di un sacramento laico, anticipando pian piano quello cristiano, dove si arriva ad un “centro” più volte accennato nella poesia. Di che si tratta? Sta parlando dell’anima Anne? O soltanto del suo corpo che si riappropria della propria sensibilità? Ed ora inizia uno struggente allattamento: “mi porgono del vino come a un bambino si porge del latte”… con un bicchiere raffinato (Calice della consacrazione?) in un improbabile modo di abbeverarsi quasi magico, dove il liquido suscita tosse e brucia la pelle fuoriuscendo sul viso, un vino che galoppa in gola come un cavaliere che arriva (ha mai letto l’Apocalisse Anne?)… E infine si proclama il delirio: “Mi vedo come se mi vedesse un altro. Sono stata tagliata in due”: somma follia o somma consapevolezza che affiora all’apice dell’unione sacramentale tra corpo e anima, tra creatura e Creatore? La stessa Anne pochi versi dopo affermerà di essere nel “dominio del silenzio, regno della pazzia e del sonno.” Tenerissima la domanda che ne segue, se si continua col parallelo metaforico latte-sangue, tale da attribuirsi alla sola Vergine, che allatta i figli attraverso il Figlio che dona per tutti il suo Sangue. Si chiede Anne: “sono venuta soltanto per il sangue?”, domanda inerme, come a dire un semplice: volevo solo recuperare la possibilità di essere finalmente allattata pienamente. 

Ma l’abbraccio della fragile Anne purtroppo non è completo: “O piccola madre”,  forse madre che non puoi tutto pienamente come avrei sperato, forse “sono dentro i miei pensieri, sono rinchiusa nella casa sbagliata”… ci è lecito forse intendere: non sono riuscita ad aprirmi all’alterità piena che sei tu! Altrove “la ragazza cristica” aveva amaramente scritto “la fede non basta al bisogno”. Ma forse si sbagliava…

Chiara Gatti