PROMETEO ED IL TRANSUMANESIMO

Mag 13, 2023 | Volti e maschere nell'arte

Prometeo

Copri il tuo cielo, Giove,
col vapor delle nubi!
Ché nulla puoi tu
contro la mia terra,
contro questa capanna,
che non costruisti,
contro il mio focolare,

Io non conosco al mondo
nulla di più meschino di voi, o dèi.
Miseramente nutrite
d’oboli e preci
la vostra maestà
ed a stento vivreste,
se bimbi e mendichi
non fossero pieni
di stolta speranza.

Quando ero fanciullo
e mi sentivo perduto,
volgevo al sole gli occhi smarriti,
quasi vi fosse lassù
un orecchio che udisse il mio pianto,
un cuore come il mio
che avesse pietà dell’oppresso

Io renderti onore? E perché?
Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?
Hai mai calmato le lacrime
di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo
il tempo onnipotente
e l’eterno destino,
i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse
che avrei odiato la vita,
che sarei fuggito nei deserti
perché non tutti i sogni
fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza,
una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me.

 

PARTE SECONDA

Proprio all’inizio del poemetto di Goethe la rabbia di Prometeo contro Giove, non più chiamato alla greca Zeus, si esprime in immagini poetiche fulgide e in una similitudine iniziale potentissima che lo dipinge come un dio piccolo e ridicolo: “E la tua forza esercita, / come il fanciullo che svetta i cardi, / sulle querce e sui monti!”,  e continua con l’invettiva per cui gli rinfaccia che egli  non può più nulla verso quella “capanna” che l’eroe ha costruito da solo con all’interno quel fuoco “per la cui fiamma  / tu mi porti invidia”.  Ecco, in maniera sublime, di cui solo un genio poetico come Goethe può essere capace, si rovesciano subito le parti: ora è Giove che invidia il fuoco a Prometeo, perché, a detta di quest’ultimo, egli è un dio meschino che si nutre solo di adorazione di “bimbi e mendichi”, cioè sfrutta la fragilità umana come omaggio e non come elemento che susciti la compassione di un dio-padre.

Non ha nulla infatti questo Giove né del dio padre, né del Dio creatore, ma solo ha le caratteristiche di un capriccioso tiranno che siede sulle nubi a chiedere tributi e a lanciare punizioni.  Ma qui forse anche il Goethe –titano, che sta osando pure lui nello scrivere questi versi, si incrina nella sua sicurezza ostentata, mostrando il volto bellissimo di un romanticismo incipiente: il sentimento si incrina, il figlio titano Prometeo-Goethe pare singhiozzare in una implorazione strozzata ad un Dio lontano e impassibile: “Chi mi aiutò / contro la tracotanza dei Titani? / Chi mi salvò da morte, / da schiavitù? / Non hai tutto compiuto tu, / sacro ardente cuore? / E giovane e / buono, ingannato, / il tuo fervore di gratitudine / rivolgevi a colui /che dormiva lassù?”.  È un uomo solo Prometeo, il suo “ardente cuore” era solo, e qui sembra diventare padre di ogni uomo del nostro tempo che grida il suo abbandono; è un eroe che si fa creatore e demiurgo senza conoscere le cure di un proprio padre, non godendo di una relazione capace di insegnargli la riconoscenza. Dunque il proprio diventare grande sarà solo un atto di sfida risentito, non tanto una pienezza di realizzazione, perché c’è ancora troppo dolore ferito in questo vantar le proprie gesta dicendo a Giove “Quando ero fanciullo /  e mi sentivo perduto,/ volgevo al sole gli occhi smarriti, / quasi vi fosse lassù / un orecchio che udisse il mio pianto, / un cuore come il mio / che avesse pietà dell’oppresso”.

C’è un bambino solo alle spalle del Prometeo adulto di Goethe, un bambino solo che ha fatto da sé per diventare grande e ora nutre sogni di onnipotenza creatrice, in una mancanza di relazione che non crea equilibrio. Il poemetto infatti si chiuderà con questo delirio da secondo creatore, per molti critici immagine della potenza creatrice del poeta, qui  invece, in un accenno di lettura gestaltica, piuttosto tensione di un contatto pieno che non è avvenuto e ora genera squilibri. Dirà Prometeo accomiatandosi : “Io sto qui e creo uomini / a mia immagine / e somiglianza, / una stirpe simile a me, / fatta per soffrire e per piangere, /per godere e gioire / e non curarsi di te, /come me.”.  C’è ancora bisogno di rinfacciare a chi lo ha creato, a chi non lo ha aiutato e sorretto, che lui e quegli uomini-figli fatti a propria somiglianza non dovranno curare in quanto padre. L’epilogo pare suggerirci che, davvero, quel che non si chiude si perpetua! Ringraziamo allora Goethe per la sua straordinaria modernità e per il messaggio ancora tanto attuale che rivolge all’uomo di oggi: senza relazione, senza appartenenza riconosciuta, si creano “mostri” solitari! Che sia un messaggio anche per il nostro mondo che si avvia verso nuove forme di transumanesimo?

Chiara Gatti
Counsellor professionista in formazione
Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy
“Nino Trapani”