Su “In lode di mia sorella”, di Wisława Szymborska

Ott 2, 2021 | Prendersi cura in forma di poesia

In lode di mia sorella

Mia sorella non scrive poesie,
né penso che si metterà a scrivere poesie.
Ha preso dalla madre, che non scriveva poesie,
e dal padre, che anche lui non scriveva poesie.
Sotto il tetto di mia sorella mi sento sicura:
suo marito mai e poi mai scriverebbe poesie.
E anche se tutto ciò suona ripetitivo come una litania,
nessuno dei miei parenti scrive poesie.

Nei suoi cassetti non ci sono vecchie poesie,
né ce n’è di recenti nella sua borsetta.
E quando mia sorella mi invita a pranzo,
so che non ha intenzione di leggermi poesie.
Fa minestre squisite senza secondi fini,
e il suo caffé non si rovescia su manoscritti.

In molte famiglie nessuno scrive poesie,
ma se accade – è raro che sia uno solo.
A volte la poesia scende a cascate per generazioni,
creando gorghi pericolosi nel mutuo sentire.

Mia sorella pratica una discreta prosa orale,
e tutta la sua opera scritta consiste in cartoline
il cui testo promette la stessa cosa ogni anno:
che al ritorno delle vacanze
tutto quanto
tutto
racconterà.

Se c’è una cosa di cui la grande poetessa polacca Wisława Szymborska ha imparato soprattutto a prendersi cura,  durante una lunga esistenza di novantacinque anni passati quasi tutti nella sua Cracovia, è stata il suo amore per le domande, per lei molto più importanti delle risposte. 

Wisława, che solo a un giudizio sommario sembra la sostenitrice di un relativismo cosmico, in realtà,  in tutto il suo ampio corpo poetico, diremmo piuttosto che appare come una rispettosa amante della vita in ogni suo più piccolo aspetto, e in ogni suo protagonista, anche il più umile. Infatti si può parlare nella sua poesia di un curriculum da fare (dove si raccomanda che “a prescindere da quanto si è vissuto/ il curriculum dovrebbe essere breve”), di formiche, pietre, finestre ed orecchini… perfino di metafisica,  citando insieme la pasta con pancetta. 

Non ci sono limiti alla sua leggera visione della dignità universale, che conferisce ad ogni cosa un proprio punto di vista: punto di vista che non solo ha ogni essere umano diverso, e in diversi tempi della propria vita, ma hanno pure un granello di sabbia (si ricordi la sua meravigliosa “Vista da un granello di sabbia”), una finestra con vista lago, uno scheletro di dinosauro al museo oppure una spilla di un’antica egiziana ridarella in un altro museo (“Ride solo la spilla d’una egiziana ridarella”)… E se ognuno può avere un proprio punto di vista, se non reale, almeno immaginato dalla stessa poetessa, questo schiude a un parallelo fluire di domande lucide, mai moralistiche, certo laiche, ma sempre profondamente umane nel senso più altro del termine. Insomma tutto del quotidiano per lei è degno di essere cantato, percepito e  visto con leggerezza arguta per le sensazioni profonde che suscita nell’animo umano, mai scontate e sempre attese, come necessità profonde per il suo sguardo attento e il suo bisogno costante di un silenzio rigenerante. 

Wisława infatti considerò la vittoria del premio Nobel per la letteratura nel 1996 come il terzo grande terremoto della sua vita dopo i due precedenti (la guerra e la perdita dell’amato compagno, il poeta Kornel Filipowicz): non gradiva essere sotto i riflettori ed infatti il suo discorso in quell’occasione fu un lungo elogio di “due piccole paroline: non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra”. Davanti a tutto il mondo e a grandi letterati la piccola Wisława spiegava così l’origine e la natura della sua poetica, che nasceva dal dubitare con garbo, immaginando anche situazioni limite come un suo possibile dialogo con chi scrisse l’Ecclesiate, autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanità di ogni agire umano. “Mi inchinerei profondamente di fronte a lui, perché si tratta – almeno per me- di uno dei massimi poeti”.

Ora, per questa donna che ha vissuto di occhi, prima ancora che di parole poetiche, come non sorridere leggendo questa poesia “In lode di mia sorella”, dove si distingue a fatica se si parla della relazione con sua sorella o del suo rapporto con la poesia:  io penso piuttosto che sia un simpatico modo per interrogarsi, senza presunzioni di risposte, sulla bellezza della diversità del punto di vista sulla realtà, della leggera possibilità di compiere gesti sicuri o maldestri, poetici o prosastici, a seconda di come si approccia al quotidiano e di come si alleggerisce o appesantisce il proprio vivere, ponendosi o meno domande o risposte. E così la sorella, che immaginiamo casalinga perfetta dalle impeccabili minestre, sposata a un marito concreto che più concreto non si può, diventa garanzia di inviti a pranzo che non saranno forieri di amletici e pericolosi dubbi sull’esistenza umana, dove la minestra non andrà di traverso per ricordi di versi poetici emblematici appartenuti ai propri genitori, che paradossalmente qui sembrano essere solo della sorella decantata… Relativo dunque il punto di vista: di chi sono in quel momento quei genitori che non scrivevano poesie? Che gioia pensare di evitare gorghi di generazioni inquiete imparentate, le quali scrivevano versi retroflessi su se stessi e sul proprio profondo sentire.  Ma alla nostra ironica Wisława sono mancati o no due genitori poetici o una sorella poetica? Non ci è dato saperlo, ma piuttosto di ringraziare per la sua leggerissima e liberante chiusa dove si loda la “discreta prosa orale” delle cartoline inviate dalla presente sorella, spedite da varie e imprecisate vacanze. 

Quanta certezza che la prosa possa raccontare ogni istante e suggestione delle appena trascorse villeggiature! Mentre alla “povera” Wisława cosa lasciamo? Il balbettante verso, molto parziale, capace forse  a malapena nel cogliere la luce di un tramonto sul mare o la una gioia per un momento di sole condiviso nell’azzurro… Ma quel verso sarà scritto su un foglio sporco di caffè, perché l’ispirazione arriva quando meno la si aspetta, e i versi si dimenticano nelle borsette intercambiabili, perché possono arrivare ed essere trascritti quando non si è comodi a casa alla propria scrivania. Ora si ringrazi, perché per qualcuno come la sorella le minestre possono essere “senza secondi fini”, dato che c’è anche chi deve tritare patate, cipolle e carote con mille agganci noti solo a lei. E questa purtroppo, o per fortuna, non è “una discreta prosa orale”…

Grazie Wisława!  E grazie alla possibilità di includere diversi punti di vista.

Chiara Gatti