Stress, carico allostatico, cervello. Le risposte della PNEI, nell’intervista al prof. Andrea Minelli

Gen 23, 2021 | PNEI

In vista dell’avvio della prima edizione del nostro Master Universitario di secondo livello in Psico-neuro-endocrino-immunologia, abbiamo fatto qualche domanda al prof. Andrea Minelli, che terrà per noi le lezioni del primo modulo didattico su “Allostasi e Cervello” e “Stress e carico allostatico”*.

La PNEI, disciplina comparsa solo recentemente nei dizionari medici e clinici, studia i reciproci rapporti tra psiche e sistemi biologici. Lei è professore di Neurofisiologia dei processi psichici all’Università di Urbino. Quante e quali sono le aree di interesse e di studio che le due discipline hanno in comune?
In comune c’è tanto. La Neurofisiologia è inclusa nella lettera “N” dell’acronimo PNEI con cui abbreviamo il nome scioglilingua di questa nuova disciplina, la PsicoNeuroEndocrinoImmunologia. Possiamo quindi dire che la Neurofisiologia è assolutamente intrinseca alla PNEI. In linea con i contenuti del mio insegnamento agli studenti del corso di laurea in Psicologia Clinica, della PNEI mi interessa soprattutto la parte relativa al cervello e ai suoi meccanismi, quella che attiene ai correlati neurali dei processi psichici coinvolti a vario titolo nelle risposte multi-sistemiche di adattamento all’ambiente (inclusa la risposta da stress). Osservare il cervello mentre funziona, con tecniche di imaging sempre più raffinate e potenti, può certamente indicarci quali configurazioni spazio-temporali di attività neurale si accompagnano a determinati stati psichici, ma può anche permetterci di carpire ai meccanismi del funzionamento cerebrale alcuni segreti che speriamo possano aiutarci a comprendere sempre di più come funziona la nostra mente. E come funzionano i rapporti reciproci fra mente e sistemi corporei. E offrirci opportunità per individuare marcatori neurobiologici utili a monitorare l’efficacia di un intervento terapeutico, o capaci di fungere da predittori dell’evoluzione di una condizione fisiopatologica. Di questo tratteremo nelle lezioni del Master. 

Qual è (stato) il contributo delle neuroscienze nell’identificazione sempre più precisa di questa relazione?
Possiamo dire che anche le Neuroscienze sono relativamente nuove, nascono “solo” una quarantina di anni fa. E si affermano rapidamente come una scienza multidisciplinare, nella quale convergono gli sforzi e le competenze di anatomisti, fisiologi, farmacologi, psicologi, neurologi e psichiatri, informatici, filosofi. Tutti insieme a raccogliere l’immensa sfida rappresentata dallo studio del cervello, l’organo più complesso esistente in natura. Così il prefisso “neuro” ha sostituito in qualche caso, forse non sempre a proposito, il prefisso “psico”, proprio in ragione della rigorosità dei metodi sperimentali con cui le neuroscienze osservano l’attività di neuroni e circuiti nervosi, elementi materici e oggettivamente misurabili, intesi come presupposto dell’attività mentale. Certamente, le neuroscienze hanno apportato un enorme contributo, concettuale e metodologico, all’avanzamento delle conoscenze nel campo dello studio del cervello e delle relazioni fra psiche e corpo. La PNEI non può e non intende prescindere dalle sue basi scientifiche, e dall’utilizzo di un approccio empirico e evidence-based, perché la visione complessa, olistica e integrata a cui si ispira non va confusa con le tendenze fumose e antiscientifiche che troppo spesso trovano spazio anche fra gli addetti ai lavori.

Per noi terrà delle lezioni su “Allostasi e cervello” e “Stress e carico allostatico”. Quali risposte innovative (diverse) può fornire la PNEI nello studio del rapporto tra allostasi e cervello?
L’allostasi è un modello di regolazione predittiva e integrata dei sistemi cognitivi, fisiologici e comportamentali, che sono costantemente all’opera per garantire la fitness dell’organismo nella sua sempiterna fatica di adattamento all’ambiente. Il modello allostatico incarna un paradigma psicobiologico multi-sistemico e integrato, quindi profondamente PNEI. Mette il cervello al centro dei processi adattativi; il cervello, infatti, è l’organo che interpreta gli stimoli ambientali, che attribuisce la salienza comportamentale agli eventi, è l’organo capace di utilizzare e aggiornare quel ricco bagaglio di conoscenze che gli permette di prevedere fabbisogni e richieste, e di regolare in anticipo le risposte dell’organismo. A tal proposito, alcuni dei più recenti modelli teorici della complessa architettura computazionale del cervello assegnano all’allostasi un ruolo di assoluta centralità nelle funzioni cerebrali e nella vita mentale dell’uomo. Anche di questo parleremo nelle lezioni, di “cervello predittivo”, cioè del cervello visto come un sistema computazionale che continuamente genera ipotesi e previsioni, inferenze probabilistiche sul sé e sul mondo, utilizzando il suo bagaglio di esperienza pregressa per costruire il presente, sempre dal punto di osservazione di un organismo che possiede un corpo. In altri termini, nel solco delle teorie della embodied mind, la rappresentazione sensoriale del corpo e il controllo sull’attività dei sistemi fisiologici sono ingredienti fondanti e costitutivi delle nostre facoltà psichiche. Il modello dell’allostasi accoglie l’idea che la mente emerge dall’attività di un cervello costantemente collegato con il corpo, in un organismo che vive e si sviluppa in continua relazione con gli altri e con l’ambiente, e spiega come è possibile che idee, affetti, pensieri, immaginazione possano “penetrare sotto la pelle”, prendere parte alla regolazione degli stati corporei, fino a regolare l’espressione dei nostri geni.

Il malessere più comune che colpisce l’uomo (post)moderno è comunemente definito “stress”. Un termine che per la prima volta venne usato negli Anni ’30. Il termine “allostasi” è della fine degli Anni ’80. Quali passi sono stati compiuti nella definizione, nella conoscenza e negli interventi su questi disturbi?
La ricerca sullo stress prende inizio intorno agli anni ’30 del secolo scorso con gli studi di Hans Selye, che definisce lo stress come una reazione aspecifica del corpo ad eventi avversi di tipo essenzialmente fisico – come caldo o freddo intensi – o microbico. Secondo Selye, le risposte biologiche si manifestano in maniera alquanto stereotipata a seguito di qualsiasi tipo di stimolazione, indipendentemente dalla natura dello stimolo stesso. Intorno agli anni ’70, John Mason comincia a porre l’attenzione sugli eventi stressanti di natura psicologica, ipotizzando che la reazione biologica di stress sia sempre mediata da una componente emozionale. Nei decenni successivi, molti ricercatori, Lazarus fra gli altri, hanno concentrato i loro sforzi sui fattori cognitivi legati allo stress e sui processi di interpretazione degli stimoli. Circa 30 anni fa, Bruce McEwen suggerisce che la risposta da stress è ben interpretabile all’interno del paradigma dell’allostasi, che offre un’utile cornice teorica e concettuale di riferimento per spiegare, e per indagare sperimentalmente, la complessità delle risposte adattative a fronte delle continue sfide ambientali.  Stress è la risposta allostatica ad eventi perturbanti di varia natura, fisici o psichici, che rappresentano una minaccia, reale o presunta, all’integrità e al benessere psico-fisico dell’organismo. Tale risposta, in linea con il modello allostatico, comprende un’ampia gamma di modificazioni fisiologiche, cognitive e comportamentali ben coordinate fra di loro, intese a mettere temporaneamente l’organismo nelle migliori condizioni per affrontare le minacce, aumentando così le chance di sopravvivenza.

Non tutto lo stress è da considerarsi cattivo: ci spiega quali differenze caratterizzano l’eustress e il distress?
Come già detto, possiamo definire lo stress come la risposta allostatica ad eventi perturbanti, a minacce reali o presunte al benessere psico-fisico dell’organismo. In sostanza, stress è la risposta che si verifica quando il mondo ci si presenta diversamente da come ce lo saremmo aspettati, o da come lo avremmo desiderato, e questo ci disturba e ci preoccupa. “Eustress” è un termine che personalmente non amo, che credo identifichi un evento stressante fronteggiato con successo, e quindi si associa a rafforzamento del senso di controllo e di autostima, delle risorse e capacità di coping, all’apprendimento di nuove abilità e all’aggiornamento dei modelli interni con i quali interpretiamo il mondo e pianifichiamo le nostre azioni sul mondo. Eustress è sporadico, occasionale, è un evento vissuto come una sfida piuttosto che come una minaccia, un evento affrontato con atteggiamento di ingaggio attivo. Con James Blascovich diremmo che eustress è una condizione situata all’estremo “challenge” (sfida) di un continuum al cui estremo opposto c’è la condizione di “threat” (minaccia); vivere una situazione come una minaccia o come una sfida dipende in larga misura da come la interpretiamo e la esperiamo soggettivamente, da quali risorse riteniamo di avere per fronteggiarla. Il problema è la cronicizzazione delle risposte da stress, il loro fallimento nel controllare le circostanze ambientali; da qui l’anticipazione di minacce future, in un mondo che ci appare ostile e oltremodo incerto. Questo è “distress”, che nel tempo induce effetti in grado di provocare una progressiva usura dei sistemi fisiologici e neurocognitivi, con accumulo di carico allostatico e incremento del rischio di patologia.

È cambiato l’uomo o il tipo di stress? La PsicoNeuroEndocrinoImmunologia può essere considerata una disciplina che collabora nella formulazione di una cura per questo tipo di malessere?
Domanda difficile. L’evoluzione culturale procede a velocità enormemente maggiore rispetto a quella biologica. Credo quindi sia più ragionevole assumere che sia cambiato lo stress. Che sia cambiato il nostro modo di vivere, la società, i ritmi di lavoro, i rapporti sociali, l’alimentazione, la fiducia nel futuro. L’uomo rimane quello, con le sue leggi biologiche, i suoi bias neurocognitivi, con la sua insopprimibile esigenza di relazione e di calore, la sua paura della morte. Pertanto, dobbiamo acquisire gli strumenti e strategie adatte per affrontare i nuovi carichi e le nuove tipologie di stress, per affinare e potenziare le nostre risorse di coping, per ricalibrare i nostri modelli interpretativi degli eventi del mondo e della loro salienza personale. In questo il paradigma della PNEI può senz’altro darci una grande mano, da un punto di vista sia teorico che applicativo.

Forse in modo erroneo, in molti la chiamano “depressione da lockdown”. Pare però evidente che la pandemia da Covid-19, le restrizioni imposte, il divieto di incontro con l’altro, il distanziamento sociale, l’incertezza sul futuro causata dal coronavirus… Quale carica hanno avuto questi elementi nel determinare un aumento del carico allostatico?
Credo sia presto per dirlo. Ma un modello di riferimento ce lo abbiamo. E’ quello degli effetti psicobiologici derivanti dall’isolamento sociale, dalla solitudine dell’uomo. Ne parleremo a lezione, nell’ambito del carico allostatico e degli effetti negativi dello stress cronico. In mammiferi altamente sociali, quali noi siamo, l’assenza di relazioni stabili e supportive è certamente una grande fonte di stress. Gli epidemiologi affermano che la solitudine aumenta la mortalità da tutte le cause e incrementa il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari, metaboliche, e neuropsichiatriche. Una spiegazione può essere individuata nel legame fra solitudine, stress cronico, e infiammazione. Secondo il modello allostatico, infatti, è ragionevole che in soggetti soli le simulazioni dei modelli interni prevedano il rischio di aggressioni e ferite, e allertino in anticipo la risposta infiammatoria, cioè la prima linea di difesa che il sistema immunitario innato attua per proteggerci dalle infezioni e per favorire la guarigione delle ferite. A lungo andare l’infiammazione diventa cronica (si produce carico allostatico).

La PNEI può essere la via disciplinare e clinica per riportare entro i binare della normalità queste alterazioni neurali, metaboliche e bio-comportamentali?
La risposta è sì. Il paradigma concettuale e teorico della PNEI ci offre una chiave per spiegare gli effetti benefici che le pratiche mente-corpo, la meditazione, la psicoterapia, hanno non solo sui sintomi soggettivi di ansia e depressione, ma anche sulla regolazione dei parametri fisiologici e immunitari (effetti ormai accertati da molti trial pubblicati in letteratura scientifica). L’approccio PNEI ci conferma che gli interventi mente-corpo inducono profonde variazioni della connettività e dell’attività dei network neurali coinvolti nelle funzioni psichiche più elevate, variazioni che si accompagnano certamente al miglioramento dello stato psicologico, ma anche alla normalizzazione delle modificazioni epigenetiche e dei marker infiammatori, cardiovascolari e metabolici indotte da stress cronico. Ne parleremo a lezione.

 

*Andrea Minelli
Dopo aver conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia a Bologna, ho iniziato il Dottorato di Ricerca in Neuroscienze presso l’Università di Ancona, studiando in modelli animali la localizzazione di molecole coinvolte nella trasmissione sinaptica. Ho trascorso alcuni periodi all’estero, prima all’UCLA di Los Angeles e poi al Center for Molecular Medicine di Berlino, dove ho condotto studi sulla fisiologia delle cellule gliali. Da qualche anno, sulla spinta del mio impegno in SIPNEI, mi occupo di studiare, nell’uomo, l’attività e la regolazione dell’asse neuroendocrino dello stress in situazioni acute o croniche di vario tipo. In collaborazione con ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche, attualmente sto indagando gli effetti del lavoro a turni sul pattern di secrezione dell’ormone cortisolo. Dal 2002 sono professore di Fisiologia all’Università di Urbino Carlo Bo, dove sono titolare degli insegnamenti di Fisiologia Umana agli studenti del corso di laurea in Farmacia e di Neurofisiologia dei Processi Psichici nel corso di laurea in Psicologia Clinica.