Prendersi cura in forma di poesia. Riflessioni a margine, di una psichiatra

Ott 25, 2020 | Prendersi cura in forma di poesia

Lo scorso 12 settembre abbiamo inaugurato la rubrica Prendersi cura in forma di poesia con un commento alla poesia Nove marzo duemilaventi di Mariangela Gualtieri, così straordinariamente attuale in queste settimane. Potete rileggere rileggere qui la poesia e le riflessioni di Chiara Gatti.
Come vi avevamo anticipato, torniamo su quello stesso testo con un commento della prof.ssa Paola Argentino, che lo rilegge dal punto di vista della psichiatra.


Ai tempi della psichiatria ante-Basaglia, un direttore di manicomio soleva dire ai suoi collaboratori che la distanza di sicurezza, da mantenere sempre con i pazienti, era tanto quanto la lunghezza di un manico di scopa! Poco più di un metro dunque… misura intorno a cui oscillano le raccomandazioni di sicurezza sanitaria di questa pandemia, 120-150 cm circa di distanziamento “interumano”… quella misura tanto “triste” indicata dalla poetessa:
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.

Una distanza di sicurezza che nei manicomi scaturiva dalla paura dell’imprevedibilità della follia, tra la naturale spinta all’autoconservazione personale degli operatori e la loro presunzione di superiorità nei confronti dei pazienti che – come narra Foucault  – erano considerati uomini inferiori, avendo perso il ‘senno’, collocandosi in una posizione intermedia tra gli animali e gli esseri umani nella scala evolutiva delle specie viventi. È un distanziamento all’interno di una relazione asimmetrica, up/down, che purtroppo nella storia dell’umanità giungerà ad orrori inenarrabili nei confronti dei malati di mente, o presunti tali, quando ad es. con quel ‘mezzo di misura’, la scopa, si lavavano i pazienti da lontano insieme a getti d’acqua con la pompa.

Differente è la distanza sanitaria imposta nelle pandemie, quivi assume un significato protettivo bilaterale, nel contesto di una relazione paritaria, simmetrica, globalizzata, coinvolgente l’umanità tutta. Si naviga, nell’incertezza continua, attraversando questa ‘tempesta virale’ planetaria, tutti insieme, nella stessa barca della vita. Canta la poetessa:
Un comune destino ci tiene qui.
Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.

Ma il non poter stare vicini ed abbracciarsi in questo percorso travolgente l’esistenza umana, ha risonanze destrutturanti a livello psichico, se non si sviluppano altre sensorialità intercorporee, quali ad esempio la vista e l’udito, ovvero comunicare con gli occhi e la voce, riducendo le distanze tramite lo sguardo e i suoni, come ben descrive la poetessa:
Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma

Ed è anche importantissima la forza immaginativa e l’intravvedere un orizzonte di speranza. Allora, non possiamo stringerci la mano? No, ma possiamo immaginarlo e pensare a quanto sarà bello quando potremmo farlo e goderlo fino in fondo.
Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
….
A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora –
noi torneremo con una comprensione dilatata.

Darsi la mano è un semplice gesto, naturale e spontaneo nella cultura occidentale, che riveste tantissimi significati e veicola la modalità di ciascuno nel modo e nei tempi di relazionarsi con l’altro. Una stretta di mano data stringendo con forza e a lungo la mano dell’altro ha un significato diverso da una mano tesa in modo rigido, dritta e sudata, e con un contatto velocissimo. Le nostre emozioni passano tra le mani tramite la sensorialità tattile e si può arrivare, persino, a sentire il battito del cuore dell’altro!

Infine l’ultima riflessione su questa poesia vorrei dedicarla alle dinamiche dell’abitare, allo slogan sventolato dai balconi, dipinto sui muri, diffuso nei social, cantato, urlato, colorato nei giorni di chiusura sociale a casa:
Adesso siamo a casa…
Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa.

Nel vivo ricordo della cara amica Giovanna Giordano che nel suo libro “La casa vissuta. Percorsi e dinamiche dell’abitare” (1997), ha individuato tre funzioni/fasi dell’abitare in termini diacronici: funzione contenitiva, funzione sostenitiva e funzione integrativa; mi piace pensare che se lei fosse stata ancora fra noi avrebbe aggiunto un’altra funzione, propria della casa vissuta durante la pandemia. Una funzione che definirei “protettiva sociale”, con una comunicazione digitale potenziata ed una intercorporeità coartata, ai confini tra l’oikòs e il cosmos

PAOLA ARGENTINO