Prendersi cura in forma di poesia

Set 12, 2020 | Prendersi cura in forma di poesia

Esiste uno speciale legame tra poesia e terapia: parole e silenzi che ricamano emozioni…
Miriam Polster spesso così sollecitava gli studenti: “Per formarvi in psicoterapia non leggete soltanto libri di psicopatologia, ma anche libri di letteratura, perché il cuore umano è descritto con passione nel romanzo ed è colto nella sua ineffabilità proprio nella poesia.”
E Giovanni Salonia e Antonio Sichera analizzano questa correlazione già in un incontro svoltosi con il prof. Savoca nel 2005 presso l’Università di Catania dal titolo “La parola tra poesia e terapia, per un dialogo tra letteratura e psicoterapia”.
La poesia vera rimanda alla voce”- afferma Sichera –  “il vero poeta è colui che scrive delle parole e che, nel momento in cui le ascoltiamo, sentiamo che non sono più semplicemente parole, è come se fossero una presenza, come se diventassero voce, un corpo che parla, quel qualcosa di indistinto che resta nell’anima, una sorta di miracolo al di là del sensibile. Noi percepiamo qualcosa che è come una presenza di un tu, come se qualcuno avesse parlato: non c’è un corpo, ma c’è un tu; qualcuno ci ha raggiunto con una parola che è diventata una voce… Questo passaggio dalla parola alla voce che accade in poesia è per certi versi ciò che in parallelo accade in terapia: un lungo lavoro per arrivare alla voce, per far sì che chi si trova immerso nella relazione terapeutica trovi le sue parole, quelle sue parole che sono quindi la sua voce, lo specifico del suo essere, le parole del suo corpo che gli appartengono”.
“La terapia ha un debito nei confronti della poesia – rivela Salonia – perché una vera terapia deve diventare poesia costruita a due nei momenti di sofferenza, mettere insieme parole e dolore… il sapere poetico del terapeuta è della parola in relazione… quando la distanza, lo scarto tra parola  e corpo, si annulla la parola è mia e, allo stesso tempo, per aiutare e per aprire spazi di guarigione, è parola dell’altro… Il terapeuta deve a poco a poco creare uno spazio in cui ogni parola può essere detta o, quanto meno, può essere dicibile (perché quando non c’è dicibilità c’è smarrimento e follia)… La parola nasce dal corpo in modo progressivo, come balbettio e come lallazione, come suono. L’uomo impara poi la grammatica, in questo gioco che è della salute e della creatività che è il suono delle parole: ci sono le parole prima della grammatica, le parole della  follia; alcune parole che muoiono per troppa grammatica; altre sono dentro la grammatica e diventano un chiacchierare inutile. Quelle che i poeti ci donano sono le parole al di là della grammatica; e anche le parole che il terapeuta cerca sono al di là della grammatica, capaci di mantenere la novità dell’anima in cui risuona la parola”.
Dirà Giuseppe Savoca: “È una sola parola che basta a salvare una vita. La poesia che salva, come la relazione che salva, cercano di riconquistare la parola perduta, questa parola unica capace di salvare diventando voce e corpo che, per essere, ha bisogno di sentire il calore e di vivere, ricreare, concrescere con il calore di un’altra persona. La parola e la relazione terapeutica forte tendono a questo indistinto in cui soggetto e oggetto, chi parla e chi ascolta, non si distinguono più nettamente. La parola è un segno polivalente estremamente difficile da definire ed è lì che sta il mistero ed il segreto dell’essere umano, in questa parola perduta.”
In definitiva concluderà Sichera:la sola parola che salva nell’Ulisse di Joyce è amore. Spogliando questa parola di interpretazioni di tipo barocco, mieloso o troppo romantico dire amore significa che quella è la parola dell’incontro.”
Vorrei dare un mio contributo a questo profondo sfondo teorico tra poesia e terapia, esplicitando dal punto di vista clinico quello che mi piace definire l’esperienza del “prendersi cura in forma di poesia”, narrandovi un incontro con ‘sono come il vento’.
È l’ora della visita medica in corsia. Gli infermieri invitano tutti i pazienti a recarsi nei propri letti. Stanza n.1: manca il paziente del letto 2 che arriva di corsa, inclinato in avanti, tutto affaccendato. Lo saluto e gli chiedo da dove viene così di fretta, e con tono gentile lo invito a sedersi e rilassarsi un po’. Risponde con tono di voce adeguato, ma senza pause tra le parole, dando l’effetto di una frase velocissima, lanciata nell’etere: “Sono come il vento, vado dappertutto, e non mi poso in niente!”. Poi sceglie di non sedersi sul letto, ma di stare vicino alla finestra, e chiede: “Quando posso andar via?”. Il mio collega descrive il progetto terapeutico in programma per lui: “Stiamo aspettando la risposta di accoglienza per lei in una comunità”.
Un pianto convulso, a singhiozzi, a tratti intervallati da parole, come la pioggia quando c’è vento: “Ci vado in comunità, l’importante che almeno tre volte la settimana posso andare a trovare mia mamma in casa di riposo. Non faccio niente, almeno un’oretta mi siedo accanto a lei”.
E in quel momento si siede accanto a me.
Ha 53 anni, non si è sposato, collezionando storie sentimentali fallimentari. Penso alla madre e alla modalità espulsiva che ha sempre avuto con il figlio, sento la disperazione del paziente che cerca “contenimento” della sua energia nel grembo materno e non trovando ciò si disperde nell’etere travolgendo tutti nel suo cammino veloce, come il vento durante la tempesta.
Ma adesso, seduto accanto a me, sembra placarsi, mi guarda negli occhi e il suo respiro rallenta, un po’ trattenuto, nasconde un’angoscia. Gli sorrido e contattando le parole che nascono dal mio corpo in relazione terapeutica, gli rivolgo queste semplici ma sentite parole: “Tranquillo, puoi rimanere qui, seduto accanto a me”.  Abbassa gli occhi e sospira, finalmente rilassato.

Paola Argentino

Nove marzo duemilaventi
di Mariangela Gualtieri

Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.

E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.

Adesso siamo a casa.

È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.

È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.

Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.

Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.

Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.

A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora –
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.

E’ una sorta di lunga ballata laica quella che Mariangela Gualtieri, poetessa e drammaturga cesenate, ci regala, dando voce a un noi che si risveglia, quasi coscienza collettiva non ancora del tutto nota ad ogni mente del genere umano evocato.
Noi… un noi stordito, quasi riesumato, che sembra ascoltarsi nel dormiveglia di una prima alba mattutina, momento di limbo in cui affiorano a poco a poco verità nuove, ancora un po’ avvolte di brume, ma potenti come rivelazioni di verità, non solo spazi onirici che faticano a lasciarci.
In una moderna e libera metrica, vagamente ereditata dal genere classico della ballata (che era fatta di alternate stanze di endecasillabi e settenari con ritornelli ripetuti per il canto), Mariangela crea strofe lunghe a piacere, a seconda di quanto può sostenere il fiato di chi recita, e reinterpreta mirabilmente il concetto di ritornello.
Il primo, infatti, unico verso di una riga, appare come un sollievo dopo due lunghe strofe gentili come carezze e lucide come ragioni che spiegano perché ora quel noi si trovi lì, appunto a casa. Il ritornello è dunque “Adesso siamo a casa”, umile traduzione poetica di quel virale “Io-resto-a-casa” o “Restiamo a casa” che sta girando vorticosamente sui media e i social per il bene della salute pubblica.
Qui si respira, ci si arrende: adesso siamo a casa dopo che ci siamo fermati, e dopo aver capito “ch’era troppo furioso il nostro fare.” E così, dopo aver “agitato ogni ora”, stupenda immagine di una frenesia collettiva inarrestabile, e aver ammesso che fermarci non ci riusciva, ora capiamo che “andava fatto insieme”. Ma fermarsi era una “sorta di desiderio tacito comune, come un inconscio volere”; sublime qui la Gualtieri, quasi sacerdotessa laica della mente di quell’uomo inarrestabile: a lei, che presta voce al nostro noi, la capacità di comprendere che forse la “nostra specie ha ubbidito e fatto entrare”… Ma cosa è entrato? “Un salto di specie – dal pipistrello a noi”… Ed ecco che la lirica ci regala uno dei suoi alti passaggi luminosi: la possibile causa di questo virus trasmesso da un animale all’uomo si trasfigura in metafora poetica, quasi catene spezzate di una violata legge da troppa frenesia, che ha sconvolto e “spalancato”… Solo al male? “Forse, non so”, di fatto “ora siamo a casa” proclama il ritornello tormentone, che sa librarsi nella profezia più bella di questo vaticinio mattutino:

È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.

E dunque qui, il noi di prima cede il passo all’idea di “specie”, di sentirsi “specie ora e come specie adesso deve pensarsi ognuno”. Il dramma del contagio che ci rinchiude in casa, paradossalmente, ci porta a una progressiva coscienza di “comune destino” di una specie che si salverà insieme, se riscoprirà certe leggi.
La profezia di prima, quella delle pepite d’oro pronte per noi solo se diventiamo aiuto reciproco, si apre qui in un lungo e lirico concorrere di immagini, realmente solo umane, come un bravo maestro spiegherebbe ai suoi bambini delle scuole elementari.
C’è infatti una storia del mondo di cui qui inizia la narrazione semplice e soave insieme: c’è una terra “viva per davvero” animata da “un pensiero che non conosciamo” e che si muove anche lei, forse, e obbedisce a una legge che lega “l’universo intero” come “noi – proprio come ogni stella – ogni particella di cosmo”.
Insieme… insieme ci sentiamo parte di un creato immenso, creature tra creature, in un “ardore di vita” che ammette anche “la spazzina morte a equilibrare ogni specie”.
E così da una parte noi, specie, organismo e dall’altra legge, equilibrio, misura… tutte parole chiave che dondolano su un’altalena lenta tra vita e morte, perché “non siamo noi che abbiamo fatto il cielo”: è questa la coscienza che quel noi deve apprendere da questo dramma. Siamo creature, creature qualunque sia il concetto di creatore che abbiamo in testa, sia che gli diamo un nome per fede o che non glielo diamo affatto. E così come creature, siamo tornati anche ad essere bambini: di nuovo invitati a stare a casa perché “l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa e non avranno baci, non saranno abbracciati”. La punizione più grande di quel noi gremito dei nostri volti bambini è appunto essere privati della relazione affettiva, delle coccole quasi di un genitore arrabbiato, che si nega agli abbracci desiderati. In questo dolore di privazione allora forse si inizia a comprendere il valore di questa “frenata che ci riporta indietro”, alle leggi delle antiche madri.
Torna ancora la legge, una legge delle madri antiche matriarche, che hanno inventato gesti e archetipi validi per ogni tempo, e consolazione perenne anche nell’assenza della relazione vitale. Pare dirci, la Gualtieri, che ci sono gesti di sempre, gesti inventati dal femminile che genera e che rende viva la casa, che anche noi, ora che stiamo qui, possiamo ripetere per sentirci meno soli senza baci e abbracci. Gesti femminili pregni e vitali, che ci piombano addosso dai primi riti tribali: “fare per la prima volta il pane”, come “tingere d’ocra un morto”… ancora ritorna la morte coi suoi riti, oggi in qualche modo perfino tragicamente negati o trasformati. E “ancora guardare bene una faccia”, “cantare pian piano perché un bambino dorma”… commozione somma di una lentezza recuperata se “saremo insieme”, come specie e come organismo che ha il volto di quel NOI. Il tutto in una stretta di mano, “semplice atto che ci è interdetto ora”, ma astensione che ci guadagnerà “una comprensione dilatata”, con una mano che “più delicata starà dentro il fare della vita”.
Infatti “adesso lo sappiamo quanto è triste stare lontani un metro”… Cosi si chiude la ballata laica di Mariangela Gualtieri, mi auguro scaldandoci un po’ il cuore, in questo tempo che ci fa tutti figli di una specie nuova, quella che forse avrà capito cosa davvero è “oro”.

Chiara Gatti

Nel prossimo appuntamento della rubrica “Prendersi cura in forma di poesia” la prof.ssa Paola Argentino, condividerà le sue riflessioni psicodinamiche relazionali che fanno da sfondo alla stessa texture poetica.